venerdì 25 settembre 2009

Nucleare

Per parlare, male, del nucleare voglio raccontare una storia molto conosciuta, non nei minimi particolari purtroppo, avvenuta 23 anni fa esattamente il 26 aprile 1986 nell’Ucraina settentrionale e nello specifico in una località che sarebbe divenuta, dai giorni del racconto in poi, nota in tutto il mondo, tristemente nota perché quella località era Cernobyl.
A Cernobyl quel 26 aprile era passata la mezzanotte da poco più di un’ora e si può immaginare che fosse una notte tranquilla, senza vento, buia, senza rumori. Solo i macchinari del della centrale nucleare V.I. Lenin funzionavano con ritmo maniacale producendo energia per soddisfare le esigenze delle Repubbliche dell’Unione Sovietica. In particolare vi era un certo fermento, di uomini e macchinari, presso il reattore 4. Era in corso un test di sicurezza.
Dormivano tranquilli, quella notte, gli abitanti di Cerbnobyl e dintorni, circa trecentomila, con la sicurezza e la tranquillità fatalistica di chi non ha nulla da perdere. Non era una zona ricca quella, era terra di minatori, operai e contadini, gente abituata a lavorare duro per un pezzo di pane e dormire sodo la notte, magari con l’aiuto di qualche goccio di vodka per riscaldare le vene raggrinzite dal freddo persistente.
Nessuno di loro, alle ore una e ventidue del 26 Aprile 1986 , sognava o immaginava che la sua vita sarebbe cambiata radicalmente, che sarebbe divenuto tristemente famoso, che il suo corpo sarebbe stato corrotto e con lui quello dei suoi futuri figli, che la sua terra sarebbe stata violentata, che il suo futuro sarebbe stato avvelenato. Dormivano tranquilli, era da poco passata la mezzanotte ed era appena iniziato, a Cernobyl, quello che sarebbe stato il giorno più lungo della città.
Il momento in cui il disco di copertura, dal peso di oltre duemila tonnellate, del reattore 4, quello dove si stava effettuando un test di sicurezza, volo via come un frisby segnò il punto di non ritorno, erano le ore una e ventitre. Il boato dovette essere terrificante, chi l’ha udito non lo può certo descrivere, e l’aria si fece subito incandescente. La discesa della china per gl’abitanti dei dintorni era iniziata.
Morirono subito due operai della centrale, coinvolti e travolti, dalle reazioni chimiche a catena che si susseguirono partendo dal surriscaldamento del nocciolo, che a sua volta surriscaldò l’acqua dell’impianto di raffreddamento portandola a temperature elevatissime che spinsero la pressione di vapore a livello esplosivo, poi si innescarono reazioni fra le sostanze chimiche contenute (acqua e metalli), inclusa la scissione dell'acqua in ossigeno e idrogeno per effetto delle temperature raggiunte, il tutto contribuì a sviluppare grandi volumi di gas. Ovviamente il primo bilancio, visto ciò che era accaduto, fu decisamente buono, pur con tutto il rispetto per le due vite umane, ma purtroppo la faccenda non finì lì. La squadra di soccorso, capitanata dal tenente Vladimir Pravik, si portò subito sul luogo del disastro, con il comando di spegnere un incendio causato da un corto circuito. Nessuno li aveva informati della tossicità dei fumi e del materiale caduto dopo l'esplosione nell'area circostante la centrale. Pravik ed i suoi ragazzi lavorarono sodo tutta la notte e già alle 5:00 del mattino, meno di quattro ore dopo la fusione del nocciolo, alcuni incendi sul tetto e attorno all'area erano stati estinti. Pravik morì il 9 maggio 1986, 13 giorni dopo l'esplosione e così morirono tutti gl’altri vigili del fuoco in azione la mattina del 26 aprile 1986.
Nessuno però nel mondo seppe nulla per tutta giornata del 26, mentre elicotteri russi, di gran carriera, scaricavano materiali inerti per cercare di spegnere la palla di fuoco del nocciolo che ardeva al centro del disastro. Solo la mattina del 27 aprile, per un fortuito caso, successe che in una centrale nucleare, a Forsmark in Svezia, scattò l'allarme ai rivelatori di radioattività. Subito gli scandinavi , visto l'elevato livello dei dati, supposero, preoccupati, che vi fosse una falla all'interno della centrale ma i risultati furono negativi. Fu allora che cominciarono a cercare altrove la fonte delle radiazioni e giunsero così fino in Unione Sovietica. Dapprima il governo sovietico sminuì la cosa ma ormai gli svedesi, con i loro controlli, avevano messo al corrente l'Europa intera che un grave incidente era occorso in una centrale sovietica. Il mondo intero cominciò a fare pressione e finalmente rilasciarono le prime scarne dichiarazioni sull'incidente che fecero il giro del mondo, raggelandolo. Da quei giorni e negl’anni a venire sessant’otto persone, compresa la prima squadra di soccorritori, morirono per causa diretta delle radiazioni, in maniera lenta ed implacabile, a volte soffrendo dolori lancinanti e perdendo a poco a poco capelli, unghie, vista, udito, fertilità. Ma non solo. Tutta la zona, comprendente un bacino di sei milioni di persone, fu nei mesi a seguire sottoposta a regime di sorveglianza sanitaria dall’Organizzazione Mondiale della sanità e dai Ministeri della Sanità di Ucraina, Bielorussia e Russia. Ciò servì a monitorare ed arginare gli effetti devastanti delle radiazioni ma si stima che possano essere duecentomila i morti per tumori e leucemie direttamente collegati a quello che venne chiamato il “Disastro di Cernobyl” legando indissolubilmente il nome della città al concetto di rovina.
Di quei giorni ho vaghi ricordi: il televisore con l’immagine della nube nera che si spostava minacciosa verso l’Europa, i vademecum sui giornali (lavare molto la verdura, non bere latte), l’apprensione crescente e palpabile nei discorsi delle persone. L’Italia, ovviamente, reagì nel modo migliore che conosce: d’istinto ed in maniera scomposta. Nel giro di un anno fu imbastito un referendum, gli unici in tutta Europa, con una velocità burocratica mai vista nell’italico stivale, nemmeno ai tempi del duce. Peccato che agli italiani non fu chiesto ciò che ci si aspettava ovvero: i tre quesiti del referendum parlavano solo di abrogare interventi statali e contributi per costruzioni di centrali e di negare la possibilità, all’Enel, di partecipare alla costruzione di centrali nucleari, all’estero però. Nessuno chiese la chiusura delle centrali attive ne tantomeno di negare autorizzazioni per la costruzioni di centrali future. Era poco ma bastava per scongiurare il proliferare del nucleare in Italia, senza i soldi degli italiani nessuno si sarebbe arrischiato a creare una centrale, anche se tutti dicevano e dicono tutt’ora che sia l’unico modo per creare l’energia che ci serve.
Ora il racconto di ciò che successe a Cernobyl non ci serve a nulla visto che il nucleare è tornato di moda in Italia alla faccia di quel 60 e passa per cento degli italiani che votarono contro il nucleare e non a favore di quei tre quesiti sciacquati da qualsiasi potere impeditivo. Certo sappiamo che le centrali moderne sono più sicure della vecchia Centrale V.I. Lenin e sappiamo che l’energia nucleare ha un alta produttività rispetto alle energie cosiddette “pulite” ma tutto ciò non dovrebbe bastare. La storia ce l’ha insegnato, basta un piccolo errore umano e la conseguenza è la catastrofe. Una catastrofe che non può essere giustificata da alcuna produttività.

giovedì 24 settembre 2009

mercoledì 23 settembre 2009

Patti Smith

Il viso lungo, le braccia in continuo movimento, il copro nervoso come la musica che esce dalle casse. Patti Smith non canta convive con il suono della batteria, del basso, delle chitarre, dell’organo hammond. È in completa empatia con essi. Che carica per una ragazza di sessant’anni in viaggio sino a Cremona dal ’68, quello utopico e sciamanico che esiste solo nei nostri sogni romantici.
Patti Smith è tutto ciò che ti aspetti da un concerto rock vecchia maniera: pochi strumenti, riff ripetuti miliardi di volte, canti strascicati al limite della psichedelia. Patti Smith, che da necessariamente il meglio di se dal vivo e a contatto con la gente, qualsiasi essa sia anche quella modesta e borghese dei concerti estivi cremonesi, ti fa ritrovare la via maestra dopo che le tue orecchie hanno subito l’abuso di migliaia di ore di musica inutile in televisione, alla radio, nei locali, nei supermercati, per strada. E tu non puoi che accoglierla se non come un vecchio amico che non vedevi da tempo e con lui scambi qualche chiacchiera sul tempo che fu ripartendo dallo stesso punto in cui vi eravate lasciati tempo prima. Il sale della vita.

Cremona 11/09/09
Concerto Patty Smith

venerdì 18 settembre 2009

Tessera del tifoso...

... una cagata pazzesca.

Tessera sì, tessera no, tessera da subito, tessera dal 2010 (vedremo), tessera per tutti, tessera per pochi ed infine tessera per chi la vuole.

Ma chi se l'è inventata questa tessera? Non si sa. Qualcuno dice il governo e lo maledice, qualcuno dice l'osservatorio che è un'entità astratta creata dalla polizia che non si sa chi ci lavoro e che poteri ha, qualcuno dice le società di calcio e per estensione la Lega.
Queste ultime sono le maggiori sospettate visto che questa benedetta tessera, come si legge nei vari comunicati, la emetteranno loro e funzionerà come la Fidaty card dell'Esselunga ed i suoi relativi cloni.
Imbarazzante se si pensa che tutto questo bailamme è stato messo in campo con la scusa della violenza negli stadi ma questo "nobile" intento pare un po' accantonato se leggiamo attentamene come viene proposta la "tessera panacea di tutti mali del tifoso".
Da un articolo della Gazzetta dello Sport possiamo leggere gli inquietanti particolari del nuovo strumento: il giornalista è subito chiaro, e questo è un pregio, dicendoci che
"È uno strumento di fidelizzazione che identifica i tifosi di un club o
della Nazionale. Il rapporto che si instaura con la società sportiva è analogo a
quello che ormai il mondo commerciale pone in essere quotidianamente coi suoi
migliori clienti
"
quindi funzionerà come le famose tessere del supermercato che a fronte di miseri sconti studiano i nostri gusti e imbastiscono campagne di marketing mirato. Infatti l'articolo continua
"(la tessera, ndr)Consente di avere percorsi preferenziali all’interno degli
stadi, di avere accessi con controlli limitati, sconti su altre manifestazioni
organizzate dalle società, sconti in esercizi commerciali convenzionati o per il
merchandising, acquisto privilegiato di biglietti per le competizioni
internazionali e per i match dell’Italia, percorsi preferenziali anche in caso
di gare all’estero. Inoltre è un investimento per i club ed è
un’importante opportunità per promuovere il marchio della società tra i
tifosi
.
"
Più chiaro di così!
Ma la sicurezza, che fine ha fatto? Ovviamente un'accenno alla primigenia motivazione va fatto, se no la faccenda diviene supodoratamente spudurata, e quindi ecco un breve accenno al problema sicurezza:
"Possono avere la tessera: coloro che non sono sottoposti a Daspo, che non
abbiano avuto condanne anche in primo grado per «reati da stadio» negli ultimi 5
anni e che non abbiano misure di prevenzione tipo la sorveglianza
speciale.
"
Leggendo questa frase già si capisce che l'argomento è trattato con insufficenza, leggerezza e menefreghismo e vi spiego il perché: chi è sottoposto a DASPO non può entrare allo stadio e negargli la tessera risulta buffo e ugualmente ridicolo se la neghiamo a chi è sottoposto a regime di sorveglianza speciale la quale, cito dal sito dei Carabinieri, "ha lo scopo di consentire all'Autorità di pubblica sicurezza di vigilare sulla persona per verificare l'osservanza di tutte le prescrizioni che il Tribunale ha ritenuto opportuno imporle al fine di fronteggiarne la pericolosità: ciò per impedire o rendere comunque arduo il compimento di iniziative criminose" ed ho già detto tutto. Rimangono in pratica realmente esclusi tutti coloro che hanno avuto condanne per reati connessi allo stadio negl'ultimi cinque anni in quanto prima della tessera non avevano restrizioni di sorta.
Ma se continuiamo a leggere scopriamo che la tessera del tifoso diviene grottesca nel momento in cui:
"È necessario averla solo per entrare nel settore ospiti dello stadio. I
normali spettatori possono andare in altri settori acquistando un regolare
biglietto."
e, senza approfondire chi sono gli spettatori normali e quali gli a-normali, ribadiscono

"la tessera non è un’imposizione. Gli spettatori che non vogliono aderire al programma «tessera del tifoso» possono continuare a frequentare gli stadi acquistando un normale biglietto in settori diversi da quello riservato agli ospiti; naturalmente, in questo modo, non godranno dei privilegi derivanti della tessera."

I vantaggi, per loro, sono quelli già descritti ovvero sconti e balle varie.
Gran finale:
La tessera deve essere vissuta come un’opportunità. Dal primo gennaio 2010 sarà obbligatoria per seguire la propria squadra in trasferta, ma se si vuole comunque decidere di far parte di un «club» di privilegiati, la tessera sarà utile anche per acquistare senza dover fare le file ai botteghini i biglietti per qualsiasi stadio d’Italia, godere di agevolazioni in tutta Italia, avere varchi preferenziali attraverso i quali si entrerà allo stadio solo inserendo la tessera, sconti in tutti gli esercizi convenzionati, la possibilità di acquistare più biglietti anche se la vendita è limitata a un solo tagliando a spettatore.

In pratica chi ha fatto il cattivo niente sconti e vada nei distinti, grazie.

lunedì 7 settembre 2009

Turchia


Sapevo già da tempo che il mio viaggio in Turchia, e nello specifico a Istanbul, avrebbe cambiato qualcosa. Sapevo che stavo per arrivare dinnanzi alla porta per l’oriente e che travalicandola non sarei tornato solo con qualche souvenir da Gran Bazar in più e qualche bella foto da mostrare agli amici. Non sapevo cosa, nello specifico, vi avrei trovato. Non lo so nemmeno adesso o forse sì, magari lo scrivo e proviamo a vedere cosa succede.

L’incipit a Istanbul

Istanbul la decadente, lo specchio dentro cui si riflettono i fasti antichi dei regni Romano d’Oriente, Bizantino e Ottomano, ha avuto il potere, strano e subdolo, di far tornare indietro l’orologio della memoria, di far scorrere le immagini di viaggi e esperienze passati su un nuovo nastro colmo di inediti commenti in sovraimpressione.
Istanbul placidamente addormentata sulle acque del Bosforo, del Marmara e del Corno d’oro è la città delle piccole cose dove ho riscoperto vecchi riti nelle sue strade piene di persone, cani, gatti e cose in vendita. Ho incontrato vecchi racconti della mia città, Cremona, mentre, seduti ad un bar, un venditore ambulante ci offriva pistacchi riportando la mente ai racconti di mia nonna che ricordava il venditore di lupini, visitatore fisso e gradito, delle osterie di un tempo. Sono rimbalzato nella tristezza fiera dei fasti austroungarici che ho annusato a Vienna mentre precorrevo le stanze dei sultani ottomani ricordo di un impero che, scomparso all’improvviso, ha abbandonato sulla terra tanto intensi quanto malinconici ricordi di un tempo glorioso che fu e che mai più tornerà. Ho sentito salire la furia cieca della musica quando in una strada nei dintorni di beyoglu ho ascoltato il suono della sono rimasto lì immobile accostato con le spalle ad un albero ripensando a quando sento il suono della tromba con la sordina e mi si rizzano tutti i peli delle braccia ed i brividi mi scorrono come lievi scariche sulla pelle. Ogni marciapiede, ogni bar, ogni angolo, ogni casa era un porta che dava su una stanza della memoria in fondo alla quale si poteva trovare un’altra porta la quale aperta dava su un’altra stanza la quale dava accesso ad un’altra ancora in un infinito gioco ricordi, specchi, emozioni.
Capisci che la città non è solo fatta di case, strade, persone e oggetti ma ha un’anima nascosta come il fuoco sotto la cenere. Istanbul può sembrare sospesa nel tempo così elegante, sonnolenta, fiera e malinconica ma è una lente attraverso la quale guardarsi.
E così mentre mescoli la zolletta di zucchero che hai fatto scivolare nel bicchiere da tè in un bar che guarda il Corno d’oro, mentre osservi i gesti, cadenzati e simmetrici, della preghiera in moschea, mentre compri la pannocchia abbrustolita dal venditore ambulante per strada, mentre osservi i pescatori attraversando il ponte di Galata su un tram affollato capisci la bellezza delle piccole cose e Istanbul ti ricorda che anche tu vivi di piccole cose sia quando sei a casa sia quando sei in viaggio.

I luoghi e le persone

I luoghi ovvero le strade, le piazze ed i palazzi, ad Istanbul soprattutto, ma in Turchia in generale, sono fondamentali in quanto sono luoghi di ritrovo, famosi o sconosciuti che siano. Niente è così lontano dall’occidente come la voglia di ritrovarsi per strada o su un battello, in un ristornate o una bottega a parlare, spiegare e raccontare a qualasiasi ora del giorno e della notte. Ho visto centinaia o forse migliaia di persone sedute su piccoli sgabelli a gruppi di due, tre o quattro sul ciglio della strada mentre si infervoravano in discussioni a me ignote bevendo tè o giocando alla tavla. Può sembrare molto fannullone agli occhi dell’operoso europeo in realtà è un modo diverso di intendere la socialità ed il momento libero. Noi europei tendiamo a chiuderci in casa, il turco no, ama ancora l’aria aperta e la chiacchera fine a se stessa. Ed allora i luoghi si riempiono, ma che dico riempiono, si affollano di persone ed assumono una nuova dimensione, un nuovo valore. Le piazze meno felici dal punto di vista artistico si affollano di persone, animali, oggetti, profumi, rumori e si trasformano in monumenti alla socialità che meritano una fotografia ed un po’ del nostro tempo tanto quanto il palazzo Topkapi o Hagia Sophia o le Moschea Blu e di Solimano.

La religiosità

Immagino che scrivere, non male, della religione mussulmana in questo periodo di babau e streghe non compiacerà ai più ma la faccenda mi lascia abbastanza indifferente e quindi lo scrivo. Sono entrato nella prima mosche della mia vita, la Moschea blu, molto turistica devo sottolinearlo, completamente a cuor leggero anche per l’atmosfera abbastanza rilassata nei dintorni. Turisti con vestiti firmati, telecamere e macchine fotografiche digitali, zainetti e telefoni cellulari sempre al lavoro brulicavano ma nessun fedele sembrava curarsene mentre si lavava mani, viso, collo e piedi alla fontana di fronte all’entrata. Ho pensato a quanto fosse lontana l’idea di Islam che ci raccontano con interessata saccenza i vari signori dei media o che comunque esistono, per quanto ne vogliano dire, diverse tipologie di Islam ed io avevo davanti ai miei occhi quello moderato. Ma questi velenosi pensieri, che subito mi sono insinuati nella mia testa così sensibile alla polemica, sono scomparsi mentre osservavo la preghiera. I movimenti ritmici, la concentrazione e l’imperturbabilità nonostante il vociare sommesso dei turisti, gli schiamazzi dei bimbi, liberi di correre e rotolarsi sui tappeti, ed i continui flash delle macchine fotografiche, mostravano una sensibilità religiosa molto più profonda e radicata che nel nostro occidente. Lo dico con distaccato stupore in quanto ateo convinto, ma il credo mussulmano possiede aspetti tanto inquietanti, quali la condizione della donna e il fondamentalismo, quanto affascinanti ovvero la tensione spirituale che si avverte nei molti praticanti. Quanto sono lontane le nostre chiese che oramai sembrano contenitori vuoti, frequentati solo da turisti o qualche anziana signora che sgrana il rosario ricordando i propri morti o qualche fedele occasionale che accende il cero alla statua di turno chiedendo una piccola grazia per il figlio o per la moglie malata. Il mussulmano mi è sembrato che ci creda di più e che le tensioni che corrono tra la religioni abramitiche le interpreti più religiosamente che politicamente, come al contrario facciamo noi. Il nostro trattare la religione come una tradizione da difendere, più che un vero e proprio credo da seguire, differenzia profondamente la nostra cultura dal quella mediorientale e non serviranno a nulla le campagne conservatrici che attraversano l’Europa. La spiritualità che abbiamo perso, e che io in tutta sincerità non rimpiango, nasceva dal nostro intimo e nessuno dall’esterno potrà mai riportacela coattivamente. Semplicemente loro ce l’hanno ancora e noi non ce l’abbiamo più. A noi, a me, non rimane che osservare la loro preghiera, più estasiati non tanto dalla religione in se e per se, ma dal modo di interpretarla.

La Storia

La storia in Turchia è la polvere che scorre sulle strade, tutto ciò che abbiamo studiato e conosciuto è passato da qui ed a lasciato una traccia. Popoli e Religioni hanno calcato queste terre ed i Turchi pare che non se ne curino. Non si tratta di menefreghismo o ignoranza: le moschee, i palazzi ottomani, le chiese ortodosse, le rovine di Troia, i campi di battaglia della prima guerra mondiale, le città grecoromane Efeso, Pergamo e Hyerapolis, le mura bizantine, le sinagoghe sembrano per i Turchi oggetti di uso quotidiano e vi riservano la stessa attenzione che noi riserviamo agli oggetti che teniamo sul comò di casa. Non vi è sensazionalismo ne menefreghismo, solo disincantato e fatalistico distacco. Qualche scrittore userebbe l'aggettivo malinconico.

Conclusione

Chi è o cos’è Istanbul? Chi è o cos’è la Turchia? Non lo so. Per me è ancora un mistero dopo tutte queste righe a scrivere e scrivere di emozioni più che di luoghi. Ma forse, se proprio si deve essere costretti ad infilare un finale in ogni cosa che scriviamo e mi si concede la licenza di scrivere una banalità trita e ritrita, posso dire che entrambi sono porte sull’oriente si ma anche su noi stessi, come già dicevo. Porte che danno su altre porte, a noi sta scovare le chiavi che le aprono una ad una.