giovedì 3 aprile 2008

Massimo D'Alema "Il fascista mafioso rosso"

Massimo D'Alema (Roma, 20 aprile 1949) è un politico italiano, già Presidente del Consiglio dei Ministri dal 21 ottobre 1998 al 25 aprile del 2000. È stato il primo ex esponente del Partito Comunista Italiano a ricoprire il più alto ufficio del potere esecutivo in Italia.

È stato segretario del Partito Democratico della Sinistra dal 1994 al 1998 e presidente dei Democratici di Sinistra dal 2000 al 2007. È vicepresidente dell'Internazionale Socialista e deputato eletto nel gruppo dell'Ulivo. La sua vita è quella di un predestinato, la politica la esercitata sin dalla più tenera età vincendo subito da giovane la sua più grande, oltre che prima ed unica, battaglia quella di abolire gli orari di rientro e di far entrare le ragazze nel collegio ove passava le sue spendierate giornate di universitario. Si è distinto per non aver mai messo piede in una fabbrica, nemmeno per sbaglio o per una visita di cortesia.

D'Alema è sposato con Linda Giuva, foggiana, professoressa associata di archivistica generale presso l'Università degli Studi di Siena, e ha due figli, Giulia e Francesco. È figlio di Giuseppe D'Alema, che è stato anche deputato del PCI, e Fabiola Modesti.

A causa del lavoro del padre Giuseppe la sua famiglia si trasferiva spesso da una città all'altra. La madre racconta che con il marito si decise di non imporre nulla al figlio, soprattutto in materia di religione, ma che già a sei anni «era interessato a tutto e gli piaceva tanto qualsiasi cosa sapesse di politica».
Nei primi giorni di scuola si dichiarò ateo e non partecipò alle lezioni di religione, cominciando uno scontro con la maestra, che secondo lui ogni giorno faceva «la solita propaganda democristiana» e anticomunista.

A Monteverde Vecchio era iscritto ai pionieri (associazione comunista per ragazzi e ragazze fino ai 15 anni) coi figli di Giancarlo Pajetta. Quando in quel quartiere si tenne un congresso del partito, fu scelto – aveva appena nove anni – come rappresentante dei pionieri: la madre ricorda che volle scriversi da solo il discorso per poi saperlo meglio, e che fece un'ottima figura, tanto da far dire a Togliatti «Capirai, se tanto mi dà tanto questo farà strada».

La sua militanza politica cominciò nel 1963, quando a 14 anni si iscrisse alla Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI). D'Alema è sempre stato considerato un «figlio del partito», perché è cresciuto in un ambiente "di partito": il PCI pervadeva la vita dei genitori e numerosi alti dirigenti del PCI erano amici di famiglia e lo conoscevano fin dalla sua infanzia, e in seguito ha percorso tutti i gradi della militanza.

A Genova, città presso la quale il padre era segretario regionale del PCI, si occupò di organizzare il movimento studentesco nella propria scuola, il liceo Doria: ad esempio per le manifestazioni contro la guerra in Vietnam.


Massimo D'Alema in compagnia di Fabio Mussi (1968) dopo aver conseguito la maturità classica, nell'ottobre del 1967 si trasferì a Pisa per frequentare la Normale (corso di filosofia): arrivò quinto all'esame di ammissione. I vincitori del concorso ricevevano (e ricevono) vitto e alloggio gratuito nella sede storica di piazza dei Cavalieri.

All'esame di ammissione conobbe Fabio Mussi, che arrivò subito dopo di lui in graduatoria e ebbe una camera proprio a fianco alla sua. I due fecero subito amicizia e parteciparono assieme in posizione eminente alle grandi contestazioni degli studenti della Normale del periodo: recentemente era stato espulso Adriano Sofri, che aveva infranto le rigidissime regole del collegio, che vietavano fra l'altro di far entrare delle ragazze nelle camere. Dopo varie occupazioni, il regolamento fu modificato (liberalizzazione degli accessi ed abolizione dell'obbligo di pernottamento e dei rientri a orari predeterminati). In seguito, Mussi e D'Alema rischiarono anche l'espulsione, ma grazie all'appoggio di alcuni professori e all'impegno nello studio si salvarono.

Grazie a queste esperienze, i due entrarono quasi subito nella dirigenza locale del PCI (il cui segretario fra l'altro aveva accolto calorosamente D'Alema, essendo un vecchio amico del padre) e organizzarono molte iniziative e manifestazioni rischiando spesso il carcere e scontrandosi coi più radicali elementi di Lotta continua, che ritenevano D'Alema troppo allineato alla posizione del PCI.

D'Alema, però, si ritirò poco prima di discutere la tesi, che doveva essere sull'opera Produzione di merci a mezzo di merci dell'economista Piero Sraffa, amico di Antonio Gramsci. Secondo l'amico del tempo Marco Santagata vi rinunciò per non essere sospettato di favoritismi, poiché l'intellettuale del PCI Nicola Badaloni era diventato preside di Lettere e Filosofia; sicuramente influirono notevolmente in questa scelta gli impegni politici assunti da D'Alema prima a livello locale, a Pisa, e poi a livello nazionale con la segreteria della FGCI.

Poco dopo entrò nel comitato federale nel partito e divenne capogruppo in consiglio comunale. In tale veste fu uno dei promotori della giunta Lazzari del luglio 1971, un esperimento inedito sostenuto da PCI, PSI, PSIUP e una parte della DC per superare un momento di stallo e votare il bilancio comunale.

Con questo, D'Alema conquistò l'attenzione dei vertici del partito e si fece la fama di aspirante capo del partito. Tuttavia non mancarono le contestazioni della sua linea, che provocò grandi discussioni: era ritenuto un saputello presuntuoso e si temevano le sue relazioni coi movimenti estremisti. Un altro ostacolo erano i commenti moralisti sulla sua relazione libera e aperta con Gioia Maestro, conosciuta da poco: ostacolo che fu rimosso con un matrimonio celebrato il 19 aprile 1973 e concluso un anno e mezzo dopo.

Nel 1975 Enrico Berlinguer stava cercando un successore per Renzo Imbeni alla guida della FGCI (che non è la "Federazione Italiana Giuco Calcio", ndr), per la quale voleva un nuovo corso: che la risollevasse dalla diminuzione degli iscritti e la portasse più vicina alla linea del Compromesso storico.

Il successore designato era Amos Cecchi, ma il suo protettore Carlo Alberto Galluzzi fu sostituito nella carica di supervisore della FGCI dall'amendoliano Gerardo Chiaromonte, amico di famiglia dei D'Alema, che scelse il futuro segretario fra D'Alema e Mussi, optando infine – dopo una cena informale coi due – per il primo, che pure non era formalmente iscritto all'organizzazione come previsto dallo statuto: la scelta di uno sconosciuto sembrò ai membri della FGCI un atto di forza e un attentato all'autonomia dell'organizzazione(protettori, amici di famiglia... manco a Cutro, ndr).

In quel periodo il motto della FGCI era stare nel movimento: D'Alema cercò di mediare fra la sinistra extraparlamentare e il Partito per evitare una rottura definitiva, inizialmente senza grande costrutto. Per dare consistenza a questa prova di dialogo, si creò il settimanale Città futura, che arrivò a vendere 50.000 copie: era diretto da Ferdinando Adornato e ospitava articoli di persone dalle opinioni più varie, animato da Umberto Minopoli, Claudio Velardi, Giovanni Lolli, Goffredo Bettini, Marco Fumagalli, Walter Vitali, Giulia Rodano, Livia Turco, Leonardo Domenici: secondo D'Alema «l'ultima generazione di quadri del partito. Il giornale chiuse poco dopo.

Tuttavia, dopo il rapimento di Aldo Moro nel 1978 la FGCI prese più le distanze dagli autonomi, scegliendo di emarginare i terroristi. D'Alema tuttavia cercò di recuperare parte del movimento continuando la propria opera di mediazione: ebbe occasione di parlare con Berlinguer, che era colpito personalmente dal conflitto generazionale, dato che il figlio Marco Berlinguer si era portato su posizioni estremistiche: in un famoso discorso a Genova preparò alla rottura dell'unità nazionale, con un forte richiamo ai giovani, che «in fondo sono figli nostri» anche quando esageravano. Ai tempi si ebbe l'impressione che Napolitano e Chiaromonte imputassero questa svolta a sinistra a D'Alema, che fu mandato in Puglia senza un incarico, come per punizione.

Il 19 marzo 1980 D'Alema arrivò a Bari, dove venne accolto dal segretario locale della FGCI, Renato Miccoli, con cui avrebbe convissuto per quasi quattro anni. Come primo atto da responsabile di stampa e propaganda acquistò la televisione locale TvZeta, finanziata anche con dei concerti. Poco dopo fu promosso responsabile dell'organizzazione. Come tale, partecipava a tutti i comizi, manifestazioni e incontri del partito, per costruire un rapporto diretto con la base del partito ed essere indipendente dal resto della dirigenza, che gli era ostile, ritenendo il suo arrivo un commissariamento.

I suoi discorsi inizialmente furono giudicati troppo freddi, ma imparò presto le tecniche oratorie e conquistò la base, così che quando dopo le fallimentari amministrative del 1981 (vinte dai socialisti) il segretario regionale si dimise fu eletto al suo posto: la sua rafforzata posizione aveva permesso a Berlinguer e Alessandro Natta di premere in suo favore senza esporsi eccessivamente.[2]

Poco dopo, Berlinguer sferrò delle pesanti accuse al PSI e alla politica clientelare in generale (la cosiddetta questione morale), in particolare in un'intervista a Scalfari ne la Repubblica del 28 luglio 1981. D'Alema si attestò sulla stessa posizione e cominciò una dura battaglia per impedire al PSI di fare della Puglia una solida base politica e di potere: la prima mossa fu ostacolare ogni alleanza locale fra PSI e DC; a questo scopo formò a Bari una giunta di sinistra col socialista Rino Formica, mentre in molti altri comuni si alleò colla DC. Infine, nonostante le resistenze interne al partito, strinse un'alleanza con la DC anche per la Regione.

Con questo curriculum, al congresso del 1983 fu eletto a membro della direzione nazionale, assieme ad altri dirigenti locali come Piero Fassino, Giulio Quercini e Lalla Trupia.

In qual periodo-a detta dell'Espresso nei tardi anni 80-si data il soprannome "spezzaferro" per al sua capacità di spezzare le grette della bottiglie con la sola forza delle mani.[citazione necessaria]

Nel 1984, Berlinguer portò con sé D'Alema al funerale di Jurij Andropov, nonostante fosse soltanto un giovane dirigente locale, per dare un forte segnale di rinnovamento e, si ipotizzò allora, per prepararlo alla successione in un congresso di due anni dopo. Berlinguer però morì poco dopo e gli successe Alessandro Natta, una soluzione di transizione in vista dell'elezione a segretario di uno dei giovani selezionati da Berlinguer, di cui Occhetto e D'Alema erano i due più in vista. Natta diede a D'Alema l'importante incarico dell'organizzazione, mentre Achille Occhetto nel luglio del 1987 fu nominato vicesegretario.

Quando il 30 aprile 1988 Natta ebbe un infarto, D'Alema – che in quel periodo era direttore de l'Unità – a Italia Radio parlò per primo della successione, senza discuterne con lui. Nel frattempo Occhetto e D'Alema avevano spinto per modificare la linea del partito, rendendola più aggressiva verso il PSI di Bettino Craxi e più aperta verso un cambiamento del sistema politico imperniato sul maggioritario.

Fu eletto deputato per la prima volta nel 1987, nella circoscrizione Lecce-Brindisi-Taranto. (ce lo tiriamo a dietro dal 1987!!!)

Nel 1990 concluse l'esperienza a capo de L'Unità: Occhetto aveva bisogno di lui per dare seguito alla Svolta della Bolognina. D'Alema, da coordinatore della segreteria, si occupava dei rapporti con l'ala sinistra del partito ed era una garanzia di stabilità, per il suo essere un «figlio del partito» che non l'avrebbe mai tradito o gettato a mare; al contrario, Occhetto appariva voler approfittare della svolta per demolire parte della tradizione del partito con cui non era a proprio agio. Infatti nel suo libro Il sentimento e la ragione Occhetto scrive che D'Alema affrontò la svolta descrivendola come una "dura necessità", impostazione che strideva con la sua.

D'Alema divenne da subito coordinatore della segreteria del neonato partito, acquistandovi una posizione eminente (anche grazie al controllo delle leve organizzative) e quasi facendo ombra a Occhetto, tanto da essere considerato il vicesegretario di fatto, cosicché, nell'aprile 1992, fu escluso dalla direzione per diventare capogruppo alla Camera (dopo essere stato capolista alle elezioni).

Contemporaneamente Walter Veltroni, responsabile della propaganda, fu promosso da Occhetto alla direzione de l'Unità.

A maggio, nell'instabilità esacerbata dall'attentato a Giovanni Falcone, D'Alema orchestrò con Ciriaco de Mita la candidatura alla Presidenza della Repubblica di Oscar Luigi Scalfaro, contro Occhetto che sosteneva il repubblicano Giovanni Spadolini.

Quando si formò il primo governo Amato, D'Alema non votò la fiducia, ma cominciò una fase di dialogo e di collaborazione per superare le difficoltà (politiche e finanziarie) del momento: dopo la crisi del governo, D'Alema – primo ex comunista – fu intervistato dal giornale della DC Il Popolo. In tale intervista, accreditò l'idea di un governo sostenuto dai partiti riformatori ma guidato da un uomo nuovo: era il profilo di Romano Prodi, ma per quella fase si scelse di formare un governo tecnico guidato da Carlo Azeglio Ciampi, per cui giurarono anche dei pidiessini, che però Occhetto ritirò dopo che il Parlamento aveva negato ai magistrati l'autorizzazione a procedere contro Craxi; il PDS non votò la fiducia ma D'Alema mantenne dei contatti di collaborazione col governo, di cui avrebbe voluto accentuare il carattere politico accreditando il PDS (e sé stesso) come forza di governo.

In seguito alla vittoria del PDS alle amministrative del 1993 tuttavia si accelerò per le nuove elezioni, che si tennero nel 1994 e furono però vinte da Silvio Berlusconi, dopo che D'Alema e Occhetto erano stati messi al centro di un polverone mediatico in seguito all'iscrizione nel registro degli indagati per Tangentopoli: D'Alema fu eletto nel collegio n°11 della Puglia.

In seguito alla sconfitta elettorale, Achille Occhetto si dimise e per la successione sostenne Veltroni contro D'Alema. Eugenio Scalfari su la Repubblica suggerì di scegliere il segretario con un referendum, che la direzione del partito decise di tenere fra tutti i 19.000 dirigenti centrali e locali del partito.

Piero Fassino si occupava di promuovere la candidatura di Veltroni; Scalfari scriveva che se fosse stato eletto D'Alema non sarebbe cambiato nulla; esperti di immagine lo bocciavano; Giampaolo Pansa lo soprannominava «baffino di ferro»: infatti i baffi furono eretti a simbolo del suo presunto stalinismo, o comunque attaccamento a una vecchia concezione del partito e della politica.

Al referendum parteciparono solo 12 mila aventi diritto, di cui circa 6 mila votarono per Veltroni e circa 5 mila per D'Alema; poiché nessuno aveva conseguito la maggioranza, la decisione fu rimandata al Consiglio nazionale, composto di 480 membri, che furono pressati da una parte da Fassino e dall'altra da Claudio Velardi, il quale aveva conosciuto D'Alema all'inizio della sua carriera parlamentare e ne era diventato il collaboratore più fedele, ed era aiutato da una squadra di dalemiani (quasi tutti ex esponenti della FGCI).

Il primo luglio 1994 D'Alema fu eletto Segretario nazionale con 249 voti a 173: secondo lo stesso diretto interessato ciò avvenne perché il partito voleva un cambiamento rispetto alla politica di Occhetto, cui Veltroni era troppo vicino.

Il 21 aprile 1996, a seguito di una nuova tornata elettorale che vide prevalere la coalizione de L'Ulivo sul centro-destra, riconfermò il proprio seggio.

Il 5 febbraio 1997 D'Alema venne eletto presidente della Commissione parlamentare bicamerale per le riforme istituzionali, dopo aver convinto l'allora capo dell'opposizione, Berlusconi, a sostenere la sua candidatura. Il 9 ottobre 1997, dopo che Rifondazione Comunista tolse l'appoggio al governo, Prodi si dimise temporaneamente. D'Alema sarebbe stato orientato verso elezioni anticipate, approfittando della difficoltà del Polo e della stessa Rifondazione. Prodi però riuscì a trovare un compromesso con Fausto Bertinotti e la crisi rientrò.

Il 9 ottobre 1998 cadde il governo Prodi e Scalfaro incaricò D'Alema che accettò e ottenne la fiducia del Parlamento.

Ricoprì la carica di presidente del Consiglio dei Ministri in due mandati consecutivi.


Il primo esecutivo presieduto da Massimo D'Alema rimase in carica dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999.

D'Alema fu il primo esponente dell'ex PCI ad assumere la carica di presidente del Consiglio. Sostenne l'intervento NATO nella guerra del Kosovo, attirandosi così le critiche dell'ala pacifista della sua coalizione. Nell'ottobre 1999 venne annunciata una crisi di governo pilotata allo scopo di farvi entrare I Democratici, ma passarono due mesi perché si arrivasse al D'Alema bis.

Il secondo esecutivo presieduto da Massimo D'Alema rimase in carica dal 22 dicembre 1999 al 25 aprile 2000.

Diede le dimissioni in seguito alla sconfitta alle elezioni regionali, in cui si era pubblicamente annunciato come certo vincitore. In particolare D'Alema ricevette la delusione peggiore dalla vittoria nel Lazio di Francesco Storace, esponente di Alleanza Nazionale e candidato della Casa delle Libertà. Gli successe nella carica di premier Giuliano Amato, che prima ricopriva l'incarico di Ministro del Tesoro.

Durante il suo governo ci fu la scalata della Telecom e la fusione con la Olivetti. Il governo non esercitò il suo diritto di intevento. Nel quadro azionario di Telecom il Ministero del Tesoro aveva ancora una quota del 3,5%, pari a due miliardi di euro. Il Tesoro non si presentò all'assemblea degli azionisti che doveva decidere le contromisure alla scalata, preferendo mantenere neutralità rispetto all'operazione. La legge sulla golden share permetteva infatti al Tesoro il diritto di veto sull'operazione, ma tale diritto era contestato in sede europea.

All'opposizione rispetto al secondo e al terzo governo Berlusconi, dal giugno 2004 al maggio 2006 è stato membro del Parlamento Europeo per la lista Uniti nell'Ulivo nella circoscrizione sud, eletto con 832 mila voti. È stato iscritto al gruppo parlamentare del Partito Socialista Europeo.

Alle elezioni politiche del 2006, vinte della coalizione di centrosinistra, Massimo D'Alema è stato eletto deputato ed ha quindi rinunciato alla carica di Parlamentare europeo. È stato proposto in modo informale da L'Unione per la Presidenza della Camera dei Deputati. Lo stesso D'Alema ha poi rinunciato a questo incarico per evitare possibili divisioni all'interno della coalizione e facilitando così la proposta e la successiva elezione di Fausto Bertinotti.

Nel maggio del 2006, alla scadenza del mandato di Carlo Azeglio Ciampi e dopo la rinuncia di quest'ultimo ad un possibile nuovo reincarico, è stato per alcuni giorni proposto in modo informale dal centrosinistra per la Presidenza della Repubblica. Data la divisione che il suo nome ha provocato nel mondo politico, l'Unione, dopo una nuova rinuncia di D'Alema, ha preferito convenire per il Quirinale sul nome di un altro esponente dei DS, Giorgio Napolitano, eletto presidente della Repubblica il 10 maggio 2006.

Il 17 maggio 2006 è stato nominato ministro degli Affari Esteri e vicepresidente del Consiglio nel Governo Prodi II. Durante il suo mandato hanno ricevuto una certa rilevanza nel 2006 l'intervento per una missione in pace in Libano, in collaborazione con la Francia.

Il 21 febbraio 2007 è stato chiamato in Senato a riferire sulle linee guida di politica estera del governo, dopo aver dichiarato pubblicamente che qualora non si fosse raggiunta la maggioranza sulla mozione il governo si sarebbe dovuto dimettere. L'esito della votazione seguita alla sua relazione (158 favorevoli, 136 contrari e 24 astenuti) ha visto battuto il governo (non essendo stato raggiunto il quorum di voti favorevoli necessario, pari a 160 voti), motivo per cui il presidente del consiglio Romano Prodi ha rassegnato le dimissioni. Rinnovata la fiducia al governo, D'Alema ha ripreso a ricoprire la carica di ministro degli Esteri fino alla caduta del Governo Prodi il 24 gennaio 2008. Attualmente è Ministro degli Affari Esteri, in carica per il disbrigo degli affari correnti.

È membro della Conferenza dei presidenti di delegazione; della Commissione per il commercio internazionale; della Commissione per la pesca; della Commissione per gli affari esteri; della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa; della Delegazione Permanente per le relazioni con il Mercosur; della Delegazione per le relazioni con i paesi del Maghreb e l'Unione del Maghreb arabo (compresa la Libia).

Nel dicembre 2000 è stato eletto presidente dei Democratici di sinistra (Ds); ha mantenuto la carica fino ad aprile 2007.

Nell'ottobre 2003, nel corso del 22° Congresso dell'Internazionale Socialista, tenutosi a San Paolo del Brasile, è stato eletto vicepresidente della stessa.

Attualmente è presidente della Fondazione di cultura politica Italianieuropei.

Dal 23 maggio 2007 è uno dei 45 membri del Comitato nazionale per il Partito Democratico che riunisce i leader delle componenti del futuro PD.

Non si deve dimenticare che nei primi mesi del 1993, quando l'inchiesta di Mani Pulite iniziava ad occuparsi delle cosiddette tangenti rosse al PCI-Pds, D'Alema definiva spregiativamente il pool «il soviet di Milano».

Il 5 marzo 1993, il governo di Giuliano Amato approvò il decreto Conso, con cui il parlamento cercava una "soluzione politica" a Tangentopoli. Il decreto fu contestato da gran parte della popolazione, non fu firmato dal presidente Scalfaro e fu criticato dal PDS. Questo episodio fu causa di attrito fra D'Alema e Amato: il presidente del consiglio accusò il PDS di aver tenuto un comportamento ambiguo.

Nel 1985 Massimo D'Alema ricevette 20 milioni di lire da parte del miliardario barese Francesco Cavallari, che fu in seguito condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. I soldi erano destinati al Partito Comunista Italiano, di cui D'Alema era all’epoca segretario regionale pugliese. Per questo finanziamento illecito D'Alema è stato inquisito ma, a causa dello scadere dei termini di prescrizione nel 1995, il procedimento è stato archiviato dal gip Concetta Russi. L'episodio è stato ammesso dallo stesso D'Alema quando il reato era destinato a cadere in prescrizione.

Nel 1995 D'Alema rimase coinvolto in Affittopoli, uno scandalo scoperto da Il Giornale: enti pubblici davano in locazione a VIP appartamenti a prezzi agevolati. Dopo una dura campagna mediatica D'Alema lasciò l'appartamento per comprare casa a Roma, ma solo dopo essersi presentato alla trasmissione di Rai 3 condotta da Santoro, dal titolo Samarcanda, in cui ha giustificato la cosa affermando che aveva bisogno della casa degli enti perché versava metà del suo stipendio di parlamentare al partito (all'epoca consistente in circa 12 milioni di Lire al mese).

Appassionato di vela D'Alema è stato proprietario di una prima barca a vela, la Ikarus, e successivamente – con i proventi della vendita della stessa integrati dalla vendita di una casa nel frattempo ereditata dal padre e da un leasing ha acquistato, in comproprietà, una nuova barca a vela, la Ikarus II, lunga 18 metri, che è stata pagata la metà del prezzo originale: i cantieri "Stella Polare" di Fiumicino gliel'avrebbero regalata per questioni di pubblicità ma lui ha voluto comunque almeno pagarne la metà.

Fonti: wikipedia.com

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